E no! Non c’entrano niente le pillole magiche, le scorciatoie da laboratorio. Qui si parla di biologia e tecnologia, consapevolezza e adattamento. Il biohacker sportivo non è l’atleta che si allena di più, ma è quello che capisce quando è il momento di spingere o quando è meglio rallentare. È quello che misura, osserva e registra. Che si sveglia e nota la qualità del sonno e che sa se oggi il suo sistema nervoso è pronto per dare il massimo. È un atleta con il cervello acceso, sempre, è padrone della situazione. In pratica si tratta di “hackerare” l’ambiente intorno e dentro di sè, in modo da esercitare il controllo sulla propria biologia, ottimizzandola e aggiornandola. Il tutto sperimentando su se stessi per raggiungere determinati obiettivi di performance.
Perché diciamolo: “se non conosci come funziona il tuo corpo, è come guidare un’auto da corsa con gli occhi chiusi”. Quindi il punto non è spremersi al massimo, ma allenarsi con più coscienza, sfruttando la tecnologia (smartwatch, fasce, app…) ma ricordando che nessun numero può sostituire l’intuito e le sensazioni personali.
Nel biohacking sportivo non alleni solo i muscoli, alleni la percezione, la risposta allo stress, la neuroplasticità, la mobilità delle fasce, il recupero profondo. È come avere un cruscotto della tua auto con tutti i tasti: “dalla qualità della tua energia al livello d’infiammazione silente, ecc.”. Ti alleni, ti monitori, ti adatti e tutto torna.
E poi c’è il mantra: “Se non misuri, non puoi migliorare”. Lo diceva già Lord Kelvin nel 1800, figuriamoci!
Ma attenzione: “il dato non è il fine, è lo specchio”. Il vero potere sta nell’auto-osservazione consapevole, non nel feticismo da apparecchiature.
Prof. Luca Agliardi
Il testo dell'articolo è un paragrafo del libro di prossima pubblicazione sul biohacking sportivo.

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